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LE «LEGGI» SULLA INFLUENZA DEI SISTEMI ELETTORALI

Published online by Cambridge University Press:  14 June 2016

Introduzione

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Nei testi di filosofia della scienza e di metodologia ci viene quasi sempre detto che senza leggi non si dà scienza. La scienza «spiega» quando arriva a formulare leggi, e cioè generalizzazioni di tipo causale. Un atto o fatto è spiegato (scientificamente) quando viene sussunto nell'ambito di una legge ricomprendente. Se così è, allora le cosiddette scienze sociali non avanzano, o avanzano di poco. Da più di trent'anni i progressi scientífici delle scienze dell'uomo sono progressi in sede di quantificazione e di misurazione, non in sede nomotetica. Come mai? Potremmo rispondere che solo il mondo fisico è governato da leggi, non quello dell'uomo. Ma il grosso dei cultori delle scienze sociali resta fedele al modello di una scienza nomotetica. I più rispondono, dunque, che le leggi che governano gli aggregati umani restano da scoprire perché sono «difficili», più difficili delle leggi che governano la natura. Che siano difficili è ben certo. Ma la verità è, mi sembra, che le «leggi» che non troviamo sono leggi che nemmeno cerchiamo. Tanto poco le cerchiamo che non sappiamo nemmeno come sono da cercare (e ancor meno da formulare). La tesi di questo scritto è dunque che la nostra retorica metodologica fa a pugni con la nostra pratica di ricerca. Fatte le dovute riverenze alla retorica nomotetica, il ricercatore se la cava lasciando intendere che, quantomeno pro tempore, l'impresa è troppo difficile per essere tentata. Ma cavarsela così è troppo facile.

Type
Saggi
Copyright
Copyright © Società Italiana di Scienza Politica 

References

1 Vedi, passim, il mio volume La politica: logica e metodo in scienze sociali, Milano, SugarCo, 1979, e sul punto spec. pp. 5254.Google Scholar

2 Riker, W.H. fonda la sua interpretazione di Duverger sostenendo che quest'ultimo «distingueva nettamente tra la legge [la prima legge] e l'ipotesi, che sono state erroneamente appaiate» (Two-Party System and Duverger's Law: An Essay on the History of Political Science, in «American Political Science Review», December 1982, p. 758). Ma temo che Riker sia tradito dalla traduzione inglese di Duverger (dei North) sulla quale si basa. Duverger non dice mai «ipotesi» e il suo termine generale (che applica indifferentemente, senza distinguere) è, di solito, «schemi». Vero è che Duverger dichiara una volta che il suo primo schema è quanto si dà «di più vicino a una veritiera legge sociologica» (Les Partis Politiques, Paris, Calin, 19542, p. 247; trad. it. Milano, Comunità, 1961); ma lo dice soltanto sulla base di un dato di fatto errato: «in nessun paese al mondo la proporzionale ha prodotto o mantenuto un sistema bipartitico» (p. 276). E sta di fatto che in tutto il suo argomento Duverger sostiene il suo secondo «schema» allo stessissimo modo e con la stessa perentorietà del primo (cfr. pp. 276, 279, 281, 283); senza contare che è il primo schema, non il secondo, che lo mette (in sede di eccezioni) in maggiori difficoltà.Google Scholar

3 da Maurice Duverger, Cito, Les Partis Politiques, cit., pp. 247 e 259. Una prima formulazione è del 1946. Nel 1950 Duverger precisava così: «1° La rappresentanza proporzionale tende a un sistema di partiti multipli, rigidi e indipendenti; 2° il doppio turno a un sistema di partiti multipli, flessibili [souples] e indipendenti; 3° l'uninominale al dualismo dei partiti» (Duverger, et al., L'Influence des Systèmes Electoraux sur la Vie Politique, Paris, Colin, 1950, p. 13). Ma la versione più nota è la rifusione in due leggi accolta nel cit. volume sui partiti (la cui I ed. è del 1951).Google Scholar

4 Cfr. Les Partis Politiques, cit., pp. 240, 241, 253, 276.Google Scholar

5 Ibidem, pp. 258–59 e 276.Google Scholar

6 Vedi, pp. 279, 281, 282. Duverger si cautela sottolineando che tale effetto può essere «limitato» e che non è necessariamente immediato. Ma che sostenga la tesi della moltiplicazione è indubbio.Google Scholar

7 Io citerò, peraltro, dalla 2a ed. riv. del 1971, New Haven, Yale University Press. Il mio scritto, Political Development and Political Engineering usciva nel 1968 su «Public Policy», ma risaliva a una relazione del 1966, ed è quindi del tutto indipendente dal testo di Rae. Vedilo ora accolto con il titolo Ingegneria Politica e Sistemi Elettorali nel mio volume, Teoria dei Partiti e Caso Italiano, Milano, SugarCo, 1982, pp. 97128.Google Scholar

8 Vedi The Political Consequences of Electoral Laws, cit., pp. 9296 e 180. Il testo inglese dice plurality formulae, e si deve intendere che il mio «maggioritarie» sta per maggioranza relativa, non maggioranza assoluta.Google Scholar

9 Cfr. ibidem, pp. 179–82.Google Scholar

10 Ibidem, p. 93. Le percentuali stabilite da Rae sono pure e semplici ricostruzioni ex post. Inoltre, i criteri di Rae non identificano caratteristiche sistemiche ma possono soltanto identificare stati discreti risultanti da singole elezioni. Pertanto Rae dovrebbe includere tra i suoi casi di «competizione bipartitica» la Turchia nel 1957 (primo partito 69.9, somma dei primi due 98.6), la Germania nel 1976 (primo partito 49.0, somma dei primi due 92.1), e la Grecia nel 1981 (somma dei primi due 95.6). Basta scendere di un punto percentuale (perché no, visto che i tagli sono soltanto arbitrari?) per includere anche la Germania nel 1980 (con 89.4 di totale dei primi due partiti). Seguendo l'impostazione di Rae un altro autore (Myron Weiner) abbassa la percentuale cumulativa a 80, così consentendo l'inclusione di legioni di altri paesi nella classe degli «eventi bipartitici».Google Scholar

11 Cfr. Sartori, G., Parties and Party Systems: A Framework for Analysis, New York, Cambridge University Press, 1976, pp. 307–15, dove mostro che l'indice di frazionalizzazione di Rae non consente di identificare sistemi concreti nelle loro distintive caratteristiche sistemiche.Google Scholar

12 Riker, Vedi, Two-Party System and Duverger's Law: An Essay on the History of Political Science, loc. cit., pp. 753–66.Google Scholar

13 Ibidem., p. 759.Google Scholar

14 Rae, , op. cit. , p. 95; Riker, , op. cit. , p. 760.Google Scholar

15 Ibidem. Google Scholar

16 Ibidem, p. 761.Google Scholar

17 Cfr. Duverger, , op. cit. , pp. 276–86.Google Scholar

18 Riker, , loc. cit. , p. 761.Google Scholar

19 Ibidem. Il corsivo è mio.Google Scholar

20 Per esempio, la generalizzazione «tutti i cigni sono bianchi» non è una legge; è soltanto una asserzione la quale, se vera, stabilisce una caratteristica definitoria. Se la accettiamo come tale, allora un cigno nero non sarebbe un cigno. Nel fatto, siccome i cigni neri esistono la generalizzazione esatta è: la maggior parte dei cigni è bianca. Ma tanto la asserzione falsa quanto la vera nulla spiegano. Se espressa in una precisa frequenza la possiamo chiamare una legge statistica; ma anche così «legge esplicativa» non è.Google Scholar

21 Beninteso, anche della fisica si può dire che è «indeterministica»; ma questa considerazione non accorcia di un millimetro la distanza che continua a separare la probabilità matematica che governa le leggi della natura, dalla probabilità poco o punto matematica nominalmente attribuita alle leggi comportamentistiche.Google Scholar

22 The Political Consequences of Electoral Laws, cit., p. 93.Google Scholar

23 Un esempio di relazione diretta è la legge di Durkheim sul suicidio: tanto maggiore l'anomia, tanto maggiore il tasso o frequenza dei suicidi. La distinzione tra questi tipi non è rigorosa. Ad esempio, la legge di Michels può essere letta come una legge di tendenza (la oligarchia sottentra sempre alla democrazia), oppure anche come relazione inversa (tanto maggiore l'organizzazione, tanto minore la democrazia); fermo restando che la seconda formulazione è preferibile dal punto di vista della controllabilità empirica.Google Scholar

24 Un esempio esemplare (e meglio precisato) è quello delle leggi astrono miche, che valgono per la velocità e la posizione di ciascun corpo celeste a ogni istante rispetto a tutti gli altri (dello stesso campo o sistema di gravitazione).Google Scholar

25 Op. cit. , p. 94.Google Scholar

26 I sistemi maggioritari in questione sono a un turno e a maggioranza relativa. Il principio maggioritario non richiede, di necessità, il collegio uninominale, e può essere applicato anche a collegi plurinominali (ad esempio, in Turchia negli anni cinquanta). Per contro, i sistemi proporzionali richiedono necessariamente collegi plurinominali.Google Scholar

27 Richard Rose minimizza, anzi nega, il contrasto osservando che «la differenza in proporzionalità tra l'eiezione mediana nei sistemi proporzionali e maggioritari è molto limitata: è del sette per cento». (Choice in Electoral Systems: The Political and Technical Alternatives, Glasgow, University of Strathclyde, 1982, pp. 2527; e vedi spec. tab. 8, p. 26). Ma le statistiche di Rose non provano per nulla il suo punto, che egli visita le stalle d'Augia dopo che gli armenti sono già usciti. Vale a dire, quando Rose arriva con le sue rilevazioni le distorsioni prodotte dal sistema uninominale sono già scontate (e incorporate nei comportamenti elettorali). E basta una elezione fuori routine per evidenziare il contrasto. Per esempio, nelle elezioni Inglesi del 1983, il 25.4% dei voti ricevuti dalla Alleanza si è tradotto nel 3.5% dei seggi; e mentre il costo in voti di un seggio dei Laboristi è stato di 40.000, ogni seggio conquistato dalla Alleanza è costato dieci volte tanto: 400.000 voti.Google Scholar

28 Ne consegue che a un certo momento la formula matematica di traduzione dei voti in seggi (sistema Saint-Laguë, D'Hondt, ecc.) acquista il disopra sulla grandezza del collegio. Anche così Rae calcola che in un collegio di 200 seggi un partito che ottiene lo 0.005% del voto otterrebbe sicuramente un seggio (op. cit., p. 163). Sulla diversa proporzionalità intrinseca dei metodi di assegnazione dei seggi, cfr. Lijphart, Arend, Sul grado di proporzionalità di alcune formule elettorali , in «Rivista Italiana di Scienza Politica», Agosto 1983, pp. 295305.Google Scholar

29 Per maggiori dati vedi spec. Fisichella, Domenico, Elezioni e democrazia, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 248–52; e Rose, Richard, loc. cit., p. 20 (tab. 7). L'Italia è tra i paesi con circoscrizioni relativamente grandi (20 eletti in media). Ovviamente i valori medi sono una misura infida se la dispersione o lo scarto non son ocontrollati (per es., in Fisichella, , op. cit., da un indice di variabilità).Google Scholar

30 Per un più ampio svolgimento dei vari punti debbo rinviare a Teoria dei partiti e caso italiano, cit., pp. 113–14 e 120–26; e a Parties and Party Systems, cit., pp. 21–23, 41, 244.Google Scholar

31 Cfr. supra, n. 11.Google Scholar

32 Vedi, meglio, Teoria dei partiti e caso italiano, cit., pp. 63–67 e 260; e Parties and Party Systems, cit., pp. 121–22.Google Scholar

33 Cfr., più ampiamente, Teoria dei partiti e caso italiano, cit., pp. 7478; e spec. Parties and Party Systems, cit., pp. 185–92, 345–46.Google Scholar

34 L'anomalia dell'australia è spiegata, quantomeno in parte, dal sistema del «voto alternativo», il quale (essendo dato, in ordine di preferenza, a singoli candidati) consente l'attraversamento delle linee di partito e, in pratica, il cumulo dei voti dei due partiti. Comunque, il punto è che tra i due partiti non c'è «gioco coalizionale»: il loro rapporto è, piuttosto, di simbiosi, di divisione funzionale del lavoro.Google Scholar

35 Escludo deliberatamente da detta lista l'Uruguay (generalmente considerato, fino al golpe militare del 1973, bipartitico) e anche la Columbia. Il bipartitismo di questi due paesi è di facciata, assai poco di sostanza. La Costa Rica è anch'essa un caso altamente dubbio, poiché di contro al PLN (partito di Liberazione Nazionale) non sta, dal 1966, un secondo partito ma una coalizione elettorale (ché tale è il PUN, Partito di Unificazione Nazionale).Google Scholar

36 Come rileva Fisichella, , Elezioni e Democrazia, cit., spec. pp. 275–76, l'influenza del doppio turno è disrappresentativa ma non, di per sé, riduttiva del numero dei partiti. Il rilievo è esatto, anche se oltre un certo limite la sotto-rappresentazione porta alla irrilevanza o addirittura alla estinzione di un partito. Ma vedi qui par. 7.Google Scholar

37 Tanto il voto limitato quanto il voto cumulativo si propongono di assicurare una rappresentanza alla minoranza. Nel primo caso, l'elettore dispone di un numero di voti inferiore a quello dei seggi (ad esempio, due voti in un collegio trinominale). Nel secondo caso, l'elettole dispone di tanti voti quanti sono i seggi, ma è libero di cumularli, e cioè di concentrarli anche su un solo candidato (che così riceverebbe, nel caso di un collegio trinominale, tre voti). Il voto cumulativo presuppone un voto multiplo; ma il voto multiplo non è, come tale, cumulativo (cumulabile).Google Scholar

38 Queste regole ripetono, con piccole variazioni, il testo riprodotto in Teoria dei partiti e caso italiano, cit., pp. 115116.Google Scholar

39 Il pernio del sistema politico dell'India, il Partito del Congresso, si è pressoché liquefatto alle elezioni del 1977, precipitando dal 68% al 28% dei seggi, per poi riconquistare nel 1980 addirittura i 4/5 della assemblea. La politica Indiana permane largamente personalizzata, prima attorno a Nehru, e poi attorno a sua figlia Indira Gandhi.Google Scholar

40 L'esperimento si direbbe concluso, visto che la nuova costituzione del 1978 prevede l'introduzione della proporzionale; ma sta di fatto che dal 1977 al 1984 non ci sono più state elezioni. Vedi, in generale, Kearney, Robert N., The Political Party System in Sri Lanka , in «Political Science Quarterly», Spring 1983.Google Scholar

41 Il Giappone è da me classificato come un sistema a partito predominante, e l'Irlanda si approssima ad essere tale. Il fatto che in Irlanda viga il sistema del singolo voto trasferibile, e che il Giappone adoperi il voto limitato, non sposta ad effetto del punto qui considerato: che in entrambi i paesi i collegi sono minimi (da 3 a 5 membri). Passando alle soglie, la Grecia è stata (dittature a parte, e pur variando pressoché ad ogni elezione) il vero paradiso degli esperimenti con clausole di esclusione: in vari modi e rispetti, gli sbarramenti Greci sono stati del 10, 17, 20, 25 e addirittura (per alleanze) del 35 e 40 per cento. Quanto al caso della Germania, io attribuisco il suo formato tripartitico alla Sperrklausel del 5%. Cfr. contra Dieter Nohlen, che invita a «non sopravvalutare» l'incidenza della clausola di esclusione (nel suo capitolo nel volume a cura di Lijphart, A., Grofman, B., Choosing an Electoral System, New York, Praeger, 1984). Ma Nohlen commette, temo, lo stesso errore di Rose (supra n. 27). Quando Nohlen rileva che in Germania voti e seggi corrispondono in quasi perfette proporzioni, l'effetto riducente della Sperrklausel è già avvenuto e scontato.Google Scholar

42 Vedi Parties and Party Systems, cit., pp. 125–216 e 273–93; e, in versione più antica e ridotta, Teoria dei partiti e caso italiano, cit., cap. III (pp. 63–96). Sul punto specifico della polarizzazione, cfr. spec. Teoria dei partiti e caso italiano, cap. X (pp. 253–290), e pp. 303309.Google Scholar

43 Con qualche variazione la figura riproduce, nella sostanza, quella già accolta in Teoria dei partiti e caso italiano, p. 118.Google Scholar

44 È vero che il sistema elettorale prevalente di allora è stato una qualche varietà di doppio turno. Ma certo, e contrariamente a quanto sostenuto da Duverger, i sistemi a doppio turno non possono essere assimilati alla proporzionale. Vedi n. 36 supra, e spec. par. 7, infra. Google Scholar

45 «Rilevanti» sta qui per dire: concentrazioni sufficienti a attribuire rilevanza sistemica a un partito. Questa condizione è ricavata dalle precedenti Regole 2, 3 e 5.Google Scholar

46 Cfr. Elezioni e democrazia, cit., spec. pp. 275–76 ss.Google Scholar

47 In Irlanda, che adopera il singolo voto trasferibile sin dal 1922, gli elettori possono votare solo per singoli candidati, non per nomi o simboli di partito. Che poi, di fatto, i pattiti prevalgano lo stesso conferma il mio argomento sulla importanza della variabile «strutturazione partitica», ma non inficia il punto che il sistema consente, in principio, di rompere le gabbie partitocratiche.Google Scholar

48 Più esattamente, per essere eletto un candidato deve conseguire una maggioranza assoluta, ricavata così: ridistribuendo le seconde (terze, ecc.) preferenze dei votanti la cui prima preferenza è andata ai candidati meno votati (e quindi eliminati).Google Scholar

49 Choice in Electoral Systems, cit., p. 16. Il corsivo è mio. Così anche Lakeman, E. e Lambert, J.D., Voting in Democracies, London, Faber, 1960, pp. 53–55; e Mackenzie, W.J.M., Free Elections, London, Allen & Unwin, 1958, pp. 54–55.Google Scholar

50 Per esempio, in Olanda (1906–1918), Germania (1906–1919), Austria (1906–1919), Norvegia (1906–1921), Italia (fino al 1919, salvo che tra il 1882–1891), Francia (Secondo Impero, dal 1885 al 1936, e V Repubblica).Google Scholar

51 Per esempio, Belgio, (fino al 1900), Norvegia, (fino al 1906), Svizzera, (fino al 1919). La Spagna, (salvo interruzioni) ha usato il doppio turno con collegi plurinominali tra il 1836-1870, il collegio uninominale a un turno tra il 1870–1931, e di nuovo il doppio turno con collegi plurinominali nel 1931–1936 (e passa alla proporzionale solo nel 1977). L'Italia passò al doppio turno con collegi plurinominali tra il 1882–1891, per poi tornare (fino al 1919) al doppio turno in collegi uninominali.Google Scholar

52 Elezioni e democrazia, cit., p. 265.Google Scholar

53 Ibidem, p. 267.Google Scholar

54 A meno che i due sistemi non siano rispettivamente corretti, come si è veduto, dal voto alternativo o dal singolo voto trasferibile.Google Scholar

55 Sulla nozione di spazio continuo o discontinuo (a intervalli diversi), cfr. Parties and Party Systems, cit., pp. 343–44; e sugli spazi competitivi (destra-sinistra o altri) vedi Teoria dei Partiti e Caso Italiano, cit., spec. pp. 279–86, e cap. X passim. Google Scholar

56 Per la penalizzazione dei partiti estremi, specie se anti-sistema, vedi Fisichella, , op. cit. , pp. 276–85.Google Scholar

57 Vedi n. 3 supra. Google Scholar